Durata
06 Marzo 2011
di Adriano Altamira
domenica 6 marzo
ore 18.00
Col mio libro La vera storia della fotografia concettuale, ho cercato principalmente di rispondere a tre domande: 1) quale sia stata effettivamente, fra il 1965 e la metà del decennio successivo, la produzione fotografica degli artisti concettuali; 2) cosa si intenda, correntemente, per “fotografia concettuale”; 3) cosa la “fotografia concettuale” non sia, in alcun caso.
Per rispondere correttamente a queste tre domande bisogna naturalmente raccontare alcuni degli avvenimenti precedenti che hanno favorito e condotto alla svolta concettuale degli anni '60: in particolare la teoria e la prassi duchampiana del readymade.
Duchamp teorizza infatti, fin dagli anni '10, che un artista possa scegliere, indicandolo, un oggetto qualsiasi e dichiararlo opera d'arte: tuttavia, alla bisogna, Duchamp fotografa oggetti e situazioni prestando alle immagini ottenute un valore analogo di opera d'arte. Al di là di ogni discussione che la scelta paradossale del readymade dadaista sia ancor oggi capace di suscitare, sta di fatto che con questa scelta Duchamp dichiarava opera d'arte una foto, semplicemente perché riproduceva esattamente l'oggetto prescelto o la situazione da lui creata, superando d'un sol balzo la questione formale posta dalla fotografia artistica -e, d'altra parte, analogamente, dalla pittura. La foto valeva per lui, insomma, in quanto riproduzione meccanica e oggettiva della realtà, non perché bella o formalmente risolta. Duchamp usa la foto più come un giornalista o uno scienziato che deve dimostrare una sua tesi, più che come un fotografo.
La distanza che questa prassi operativa scava tra quel momento storico e il giorno d'oggi si commenta da sola: benché oggi, nella prassi quotidiana, si usino ancora, nella stampa come in televisione, le immagini fotografiche con questa valenza documentaristica, non esiste più la certezza fondante, filosofica direi, che una fotografia sia l'analogon della realtà, la prova della realtà di un fatto. L'ultimo momento in cui gli artisti hanno ancora creduto che ciò fosse possibile, è stato il decennio concettuale: in quegli anni la foto aveva ancora il senso della dimostrazione di un assunto, la prova della certezza di un avvenimento. Douglas Huebler scattava ad esempio in varie ore della giornata, dalla stessa angolazione, le foto di una medesima fontana per provare che lui si trovava lì in quegli stessi momenti, quindi per accertare il passaggio del tempo tra la prima e l'ultima foto della serie. In questo caso vi è un'assoluta indifferenza per la qualità delle foto, che hanno solo il compito di comprovare il passaggio del tempo, di “catturare” il passaggio del tempo -come potrebbe fare una telecamera di sorveglianza. Per confezionare una Duration Piece di questo tipo, Huebler aveva bisogno, in ogni caso, di un testo (statement) che descrivesse l'operazione che intendeva compiere, di cui le foto costituivano, in certo senso, la prova del lavoro effettivamente svolto. Questo tipo di impostazione riguarda un gruppo di una decina di artisti anglosassoni e statunitensi, ma naturalmente è estensibile, con qualche distinguo, anche ad altri artisti italiani, tedeschi, olandesi, ecc.
Questi distinguo riguardano una osservanza di regole meno strette di quelle poste dagli artisti di lingua inglese, fatta salva la prerogativa di usare la foto come immagine alternativa a quella pittorica; ma anche in questi casi non interessa tanto un particolare tipo di resa formale, quanto la capacità di usare quell'immagine come traccia per una speculazione mentale che è, di fatto, l'opera.
Questo modo di procedere, sia pure con modifiche di vario tipo è durato ancora negli anni successivi, fino a perdersi quasi completamente.
La cosa interessante è che alcune modalità della foto concettuale (l'idea di sequenza dimostrativa, l'idea di comprovare un'idea attraverso la serie, l'enumerazione, l'idea di un ciclo chiuso) si trovano spesso nel lavoro dei fotografi che nell'ambiente delle arti plastiche. Quasi a riprova del fatto che il tempo e i dovuti aggiustamenti hanno fatto circolare certe modalità operative oltre ai limiti dell' ambiente circoscritto che le aveva create.
E' invece da escludersi assolutamente che foto bizzarre, senza senso, storte o fuori fuoco si possano definire concettuali solo perché non sono riconoscibili come foto classiche. Come spero di aver dimostrato almeno in parte, le regole concettuali sono assai severe e hanno raggiunto oggi una sorta di loro classicità che lo spontaneismo e l'improvvisazione improvvisata non possono sostituire.